C'è stato un tempo in cui la parola "verde" evocava boschi incontaminati, distese d'erba e un senso di pace. Oggi, invece, quel verde si è fatto strategia. Marketing. Ideologia. In politica, è diventato quasi obbligatorio colorare le proprie proposte di sostenibilità: piani climatici, transizioni ecologiche, incentivi verdi. Masotto questa patina ecocompatibile, si cela spesso una verità meno brillante. Ed è qui che emerge il fenomeno del greenwashing legislativo: quando leggi, riforme e normative si dipingono di verde, ma senza cambiare davvero le regole del gioco.
Per comprenderlo, basta osservare come la sostenibilità sia diventata un linguaggio obbligato nei palazzi istituzionali. Ogni proposta politica si sforza di includere riferimenti alla neutralità climatica, alla decarbonizzazione, alla transizione energetica. Ma il contenuto di queste misure è all'altezza della loro promessa?
Uno dei casi più emblematici è quello della tassonomia verde dell’Unione Europea, il sistema introdotto per classificare le attività economiche realmente sostenibili. Nata con l’intento di guidare gli investimenti verso una transizione ecologica, la tassonomia ha sollevato critiche accese quando, nel 2022, la Commissione ha proposto di includere gas naturale e nucleare tra le fonti "green".
Come si legge nel testo ufficiale della Commissione Europea, “il gas naturale e l’energia nucleare possono svolgere un ruolo nel processo di transizione verso un’economia climaticamente neutra”. Questo linguaggio, volutamente vago, è stato criticato da esperti di sostenibilità per l’uso di concetti relativi alla "transizione" come giustificazione all'inserimento di fonti non rinnovabili.
Secondo l’allegato tecnico della tassonomia, un impianto a gas può essere considerato sostenibile se “sostituisce una fonte più inquinante” e se le emissioni rientrano sotto 270gdi CO₂ per kWh. Tuttavia, molti scienziati contestano questi limiti, giudicandoli troppo generosi e quindi inefficaci rispetto agli obiettivi climatici di lungo termine.
Secondo i sostenitori della misura, questa inclusione era necessaria per accompagnare la transizione, garantendo un approvvigionamento stabile di energia. Ma molti studiosi, attivisti e anche alcuni Stati membri hanno denunciato la misura come un compromesso politico più che una scelta scientifica. Il rischio? Che venga incentivata l’illusione di sostenibilità, dirottando fondi pubblici e privati verso tecnologie che non rispondono ai criteri ambientali più rigorosi.
Organizzazioni come Greenpeace e Client Earth hanno presentato ricorsi legali contro l’inclusione di queste fonti, sostenendo che non rispecchiano i requisiti di neutralità climatica previsti dagli obiettivi europei. La decisione ha anche provocato spaccature tra gli Stati membri, con alcuni – come l’Austria e il Lussemburgo – apertamente contrari.
Questo episodio mette in luce un nodo cruciale: le politiche ambientali non possono limitarsi a un cambio di linguaggio. Occorre un cambio di struttura, di intenti, di visione. Perché etichettare come sostenibile ciò che non lo è davvero è un inganno, e rischia di minare la fiducia dell’opinione pubblica nelle istituzioni e nel valore stesso della transizione ecologica.
Nel frattempo, anche fuori dai confini europei, il greenwashing legislativo prende forme simili: leggi sulle "energie pulite" che finanziano l’industria del gas, riforme agricole che continuano a sostenere pratiche intensive, piani di riforestazione che promuovono monocolture poco resilienti. In molti casi, il principio del profitto a breve termine continua a prevalere sulla visione ecologica a lungo termine.
Serve allora un nuovo approccio: leggi che siano veramente scientificamente fondate, trasparenti, pensate in ottica sistemica e partecipativa. Serve soprattutto una cittadinanza informata, capace di riconoscere le verità dietro le narrazioni.
Perché non basta che una legge parli di ambiente. Deve anche agire per l’ambiente.
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